Di servizio clienti dell’Amazon Kindle e falsi indie

(riflessioni sparse su Kindle, servizio clienti Amazon e librerie che sono indipendenti solo in teoria)

Che il Kindle di Amazon abbia pesantemente influito nel privare la società contemporanea di romanticismo è indubbio. Tuttavia, siccome il romanticismo mi fa schifo, io e il suddetto Kindle avevamo avviato una relazione piuttosto fruttuosa, anche se i miei amici ci osteggiavano tutti, con la storia che “Non è la stessa cosa, perchè vuoi mettere l’odore della carta?”. Io e il Kindle, comunque, eravamo una coppia piuttosto libera, nel senso che lui non se la prendeva più di tanto quando, periodicamente, tornavo alla carta, al primo amore, quello che non si scorda mai.

Stavo rileggendo “Finzioni” di Borges quando quel bastardo mi ha lasciata così, senza nessun preavviso, con la metà superiore dello schermo come unico ricordo del nostro amore e tutto il resto bianco. L’impulsività da donna ferita mi aveva spinta ad urlare frasi inviperite tipo “La carta non tradisce così!” o a prendermela con quelli che ci avevano osteggiati (“Sarete contenti, adesso!”).  Ci ho messo due mesi per superare la cosa, ho iniziato a rileggere “La versione di Barney” e “La ragazza dai capelli strani”, su carta, ho comprato “Il peso della grazia” di Raimo e “La ragazza con la gonna in fiamme” della Bender, sempre su carta, prima di decidermi, finalmente, a chiamare il servizio clienti Amazon anzi, tecnicamente, a farmi chiamare. Funziona che si clicca su un tastino con su scritto “CHIAMAMI”, che fa tanto linea telefonica porno o qualcosa del genere, e cinque minuti dopo, magia magia, squilla il telefono, e per la gente a cui pesa il culo tipo la sottoscritta è un bene dover premere solo il tastino per rispondere invece che i circa dieci tasti per comporre il numero.

Gentili, non c’è che dire. Efficienti, non c’è che dire. Mi mandano un kindle nuovo entro giovedì. Però, a me i tizi che parlano al telefono nei servizi clienti mettono tristezza a prescindere perchè sono pagati poco e obbligati di default a essere gentili, carini e virtualmente sorridenti anche con la gente rincoglionita tipo me,  che fino alla chiamata al servizio clienti Amazon non avevo ancora capito che quando ti chiedono “Hai una carta di credito? rispondere “No, però ho la Postepay” è paradossale perchè di fatto la Postepay E’ una carta di credito. Insomma, io mi sarei mandata a cagare. E, tizio del servizio clienti di Amazon, dico a te, se quando ho attaccato mi hai presa per il culo, beh, hai fatto bene. Comunque, stavo divagando: il punto, il “però” reale, è che la telefonata ha risvegliato la me “vecchia nostalgica” e mi ha tirato fuori un commento tipo: “Però le librerie indipendenti sono un’altra cosa, cazzo”.

Non è la stronzata dell’odore della carta che qualcuno, forse Lagerfeld, aveva pure avuto l’idea di farci un profumo (prevista invasione di versioni hipster di Marylin Monroe, a letto “vestite” di due gocce di profumo di carta e niente più). E’ perchè, siccome sono collettivista dentro, ho sempre avuto l’idea della letteratura che trascende la pura addizione di singoli atti capitalistico/individualistici (semplicisticamente riassumibile in: scrittore-libro-editore, libraio-lettore, lettore-libro) e diventa un unico atto collettivo in cui scrittore, editore, libraio e lettori sono alla pari e usano insieme il libro e l’atto del leggere come mezzo per produrre resistenza all’impoverimento culturale (e per questo, per aumentare il potere resistenziale, è importante che i libri siano liberi e che possano essere messi in condivisione, prestati. Cosa che, ad esempio, Amazon impedisce). In quest’ottica non ho mai considerato le librerie, le piccole librerie indipendenti, come luoghi di commercio: erano punti di aggregazione di cellule di resistenza.

Però quando si fa militanza politica si diventa consapevoli del fatto che, a parte le utopie di quando alle medie studiavi il sessantotto e ti immaginavi le puttanate stile “Fiori nei cannoni”, “Amore universale” e via discorrendo, nei movimenti ci sono un sacco di pezzi di merda. Nella militanza culturale è uguale: editoria a pagamento, scrittori di merda, lettori di merda, sfumature di grigio, giampaoli serino e via discorrendo. Ad esempio, le librerie indipendenti le ho sempre difese, per il motivo che scrivevo sopra, dell’aggregazione delle cellule di resistenza e perchè questa resistenza non è strumentalizzata dalle major a fini strettamente capitalistici. Poi un paio di giorni fa, a cinque giorni di distanza dalla chiamata alla Amazon, in una presunta libreria indipendente trovo una gigantografia che sponsorizza il nuovo libro di Federico Moccia, libri belli usciti di recente quasi nascosti e roba tipo le sfumature di marrone merda più varie porcate di case editrici a pagamento locali messe in primo piano appena si entra. A questo punto, vaffanculo, me ne vado alla Feltrinelli. Me ne torno all’altra libreria, che mi è sempre piaciuta di più e che di fatto rientra nell’ottica della mia idea di aggregazione di resistenza culturale anche se poi teoricamente è un Punto Einaudi.

Concludendo? Il servizio clienti Amazon è efficiente ma è triste e difendere le librerie indipendenti solo perchè sono indipendenti economicamente è una puttanata, perchè indipendente non è automaticamente sinonimo di qualità.  Non so se c’è qualche nesso tra le due conclusioni. Si potrebbe tirare fuori la teoria che il nesso c’è, ed è che siccome la Amazon è così efficiente, le librerie indipendenti devono iniziare a vendere merda che però si vende per tirare a campare: è una cazzata, dal momento che l”unica soluzione è puntare non sulle porcate che vendono, che su Amazon sono più economiche, ma sulla qualità e sull’aggregazione culturale.

Comunque, anche se il nesso non c’è, io all’inizio l’avevo scritto che si trattava di riflessioni sparse.


Blog will tear us apart

(photo credits: il deboscio.com)

Il mio psicanalista aveva una teoria strana e contorta sul perchè scrivessi questo blog. Roba che c’entrava con l’autostima. Io semplicemente dico che scrivo quello che mi pare e quando mi pare, ho scritto due romanzi e mezzo ma -causa senso critico annichilente- sono tentata di dargli fuoco ogni volta che li leggo e quindi mi limito al blog, che qua sopra non si può dare fuoco a niente.  E poi c’è il fatto che mi piace che le cose che scrivo, ogni volta che qualcuno le legge, diventano anche di quel qualcuno che le ha lette, trascendono da me, si collettivizzano, smettono di essere cose, accozzaglie di lettere e frasi, e pixel, e diventano atti di resistenza (resistenza politica, resistenza all’infelicità, resistenza alla noia, insomma, poi quello dipende). Mi piace scrivere e mi piacerebbe anche camparci, scrivendo, giusto per fare il bastian contrario rispetto a quello che la gente si aspetterebbe, mettermi a fare la scrittrice come lavoro e il medico psichiatra come hobby, però sono consapevole del fatto che è poco fattibile, quindi mi accontenterei di non dover giustificare ogni volta il tempo che passo a scrivere cose, di non dovermi sentir dire ogni volta la sempreverde e semprefastidiosa “Studia, piuttosto che perdere tempo…”.

Lucia Annunziata mi è sempre stata sul culo e ogni volta che me la nominavano pensavo solo all’imitazione di Sabina Guzzanti, però Lucia Annunziata, siccome ha fatto la televisione, è una riconoscibile anche dagli over quaranta come i miei genitori: quando mi hanno contattata, prima via mail, e poi via telefono, chiedendomi di tenere un blog sull’edizione italiana dell’Huffington Post, diretta dalla suddetta Annunziata, non ho pensato alla visibilità in termini generali, ho pensato a questo. Potevo dire finalmente a mia madre: “Vedi mamma, tu non te ne accorgi ma sono brava, ho talento, mi hanno notata, scrivo per Lucia Annunziata, non perdo tempo, vedi? Mi va bene anche se mi danno meno di dieci euro per ogni cosa che scrivo, che tu e papà continuate a pagarmi l’università e i libri e la stanza da fuorisede e io almeno le sigarette, i dischi e il cinema riesco a pagarmeli da sola. Anche se la mia amica lavora in una pizzeria e le danno di più, non fa niente, va bene, faccio quello che mi piace”. E glielo avevo detto, a mia madre.  Poi sono arrivati i Termini d’uso per i Bloggers e le dichiarazioni del mio capo.

E, vedi, mamma, ammetto di averci riflettuto. Non ci uscivano nemmeno le sigarette, il cinema e i dischi, dovevate continuare a pagarmeli tu e papà, ma almeno potevo dire a te e a papà che scrivevo per la Annunziata e dimostrarvi che il “tempo-che-perdevo-a-scrivere-sottraendolo-all’-università” almeno serviva a qualcosa. Però, lo sai, io oltre a fare la blogger faccio anche attivismo politico e mi sono presa i lacrimogeni, il fumo e il panico del quattordici dicembre duemiladieci e del quindici ottobre duemilaundici, per dire solo le due più grosse, per difendere quel poco di spazio che ci è rimasto e provare a riprendercene altro. Mi bruciano ancora gli occhi se penso ai lacrimogeni, e mi stanco ancora se penso a tutti gli scatoloni di libri svuotati per la biblioteca popolare e le volte che mi svegliavo presto di sabato per le manifestazioni e i presidi, anche a dicembre, anche a gennaio, però è un bene perchè quando mi bruciano gli occhi e mi sento stanca mi ricordo che devo dire di no alle persone come Lucia Annunziata.

Quello che mi proponeva lei, mamma, si chiama sfruttamento, considerando che da un lato con le cose che scrivevo avrei contribuito a riempire il suo blog (si vantava anche, del fatto di avere tot blogger, per altro) e dall’altro, diffondendo i link del mio blog avrei diffuso il suo marchio. Praticamente, è come se Arianna Huffington fosse il signor McDonald, Lucia Annunziata la responsabile di McDonaldItalia e i blogger il tizio che si traveste da pagliaccio nel singolo McDonald, che da un lato riempie il locale e “fa colore”, dall’altro pubblicizza il prodotto. I blogger non fanno informazione. Il pagliaccio del McDonald non fa i panini. Però lo pagano. Lo pagano una miseria, ma lo pagano.

Oltretutto, di fatto, la situazione blogger/dirigenti dell’Huffington Post Italia è una situazione paradossale: tu non sei un loro dipendente, perchè non ti pagano e non firmi nessun contratto, ma loro sono i tuoi capi perchè dettano legge su quello che tu devi fare e ti sorvegliano (e c’è anche il magico software Julia contro le volgarità. Ah, Lucia, prima che mi dimentico, vaffanculo, cazzo, figa, tette, culo). Tu non sei un loro dipendente, ma loro sono i tuoi capi: WTF?

La domanda, a questo punto, è una: quelli che continuano a tenere i blog sull’Huffington Post, ma anche su altre testate online simili, che sfruttano e non pagano, a meno che non siano Tremonti, perchè lo fanno? Lo fanno per la benedetta visibilità? Ma a quel punto non hai bisogno di scrivere su una testata online, fai un video in cui canti ruttando una canzone degli ottoottotre e uppalo su youtube: insomma, anche gemmadelsud aveva visibilità e quantomeno LEI non contribuiva ad abbassare il compenso di un giornalista professionista fornendo agli schiavisti manodopera gratis. Lo fanno per la stronzata suprema “Scrivo perchè mi piace farlo, mica perchè voglio essere pagato”? Ci sta. Però a quel punto tieni un blog tuo dove scrivi quello che ti pare, come ti pare, e quando ti pare, tieni un diario, scrivi le liste della spesa, prendi quattro amici e inventati una webzine che magari viene pure su carina, e se la fai musicale vai pure ai concerti gratis, non dire che scrivi perchè ti piace e poi diventi di fatto lo schiavetto di un’azienda (che poi, perchè se uno fa il parrucchiere perchè gli piace tagliare i capelli è normale che venga pagato e invece uno che scrive perchè gli piace scrivere, dovrebbe scrivere solo per il piacere di scrivere e non essere pagato?).

Per tutti questi motivi, mamma, ho mandato in culo Lucia Annunziata. Per salvare la mia integrità culturale, la mia libertà di stile, per poter dire tutti i cazzo, figa e vaffanculo che mi pare e soprattutto perchè la schiava non la faccio, perchè non mi svendo a nessuno.


Di diete Dukan, Guia Soncini e i criteri di ricerca di Google

Qualche giorno fa ho scoperto che c’è gente che è arrivata su questo blog cercando una roba tipo “giornalista che studia la dieta Dukan e la prova” e la cosa mi ha indotta ad inveire contro i misteriosi criteri di Google Search più di quando qualcuno arrivò qua sopra cercando “sesso estremo con donne cannibali“: la giornalista che studia la dieta Dukan e la prova è Guia Soncini, Guia Soncini mi sta sul culo e sulle ovaie a cicli alternati (non perchè è stronza, perchè è palese che è una poser che fa la stronza perchè fare gli stronzi è figo e di moda nei circoletti radical scic).

Comunque, se proprio interessa, veniamo alla dieta Dukan: l’ho provata e a differenza della suddetta Soncini  trovo che sia una merda per una serie di motivi:

1. Pierre Dukan ha un bel nome e evidentemente “dieta Dukan” suona meglio di “dieta iperproteica”. Tuttavia Pierre Dukan non ha inventato niente di nuovo, non è un fottuto genio, e le diete iperproteiche esistono da almeno un decennio.

2. La dieta Dukan costa sia in termini economici che in termini di tempo, se si vuole conservare una varietà alimentare che consenta di non annoiarsi dopo la prima settimana. Se non siete degli altoborghesi  radscic con un sacco di tempo a disposizione e con abbastanza soldi da comprare le cose carine carine sul sito Dukan, tipo la Nutella Dukan e stronzate così, preparatevi a mangiare uova, carne, carne, uova, uova, carne, carne, uova (che non è compatibile con l’essere vegetariani/vegani e soprattutto spinge il fegato a suicidarsi impiccandosi all’appendice o affogandosi nella bile per disperazione).

3. Le famose crêpes di crusca d’avena. Anche seguendo alla lettera le indicazioni di Pierre D. su dosi, ingredienti e procedimento ed usando padelle antiaderenti superpiù nell’ottanta per cento dei casi verranno fuori delle cose con la consistenza di una frittata sfatta e il sapore del polistirolo espanso.

4. Vietato sgarrare altrimenti tocca fare il fastidiosissimo conteggio delle calorie. Pierre D. nel libro dice una roba del genere e una roba del genere, in termini pratici, è un controsenso. Con un pranzo, una cena e uno spuntino in stile Dukan si sta abbondantemente sotto le 1000 calorie al giorno, e ne restano almeno 100 o anche di più per “sgarrare” (per inciso, da brava fissata che ormai conosce a memoria le calorie di buona parte dei cibi conosciuti, vi dico che un cubetto di cioccolata al latte fa più o meno quarantatrè calorie – meno di un cucchiaio di olio extravergine di oliva)

5. Coca Cola Zero e Bottega Dukan. Da brava fissata col conteggio delle calorie sono una fan della Coca Cola Zero, che come suggerisce il nome, fa Zero calorie (aspetto la calata degli amici antimperialisti che vengono a sfracellare le ovaie sul fatto che compro Coca Cola e finanzio l’Occidente peggio delle Pussy Riot, ndr). La mia parte razionale però mi induce a fare un ragionamento semplice: come fa una cosa che ha lo stesso identico sapore della Coca Cola a non avere le calorie che ha la Coca Cola? Negli anni novanta andava la Coca Cola Light e uno ci credeva al fatto che era Light perchè faceva schifo. Stesso discorso vale per la bottega Dukan. La Nutella Dukan, e simili: come fa una cosa che ha il sapore della Nutella e la consistenza della Nutella a non avere le calorie della Nutella? A meno che non si tratti di aromi sintetici che in buona parte dei casi sono un’autostrada per Cancerland a scorrimento più veloce di venti sigarette al giorno, è impossibile.

6. Il metabolismo rallenta. La dieta Dukan se non è associata a tot ore di palestra/nuoto/sport alla settimana, non funziona (altrimenti, oltre a non consentire di perdere meno di tre o quattro chili, tutti i tristissimi mesi di uova e carne, carne e uova, e spruzzi di fiocchi d’avena spariscono nel giro di due pizze). Anche tutte le altre diete, associate a tot. ore di palestra/nuoto/sport sono efficaci. Quanto la dieta Dukan. E magari pure più sane.

Nota a margine: una volta pensavo che guarire dalla bulimia significasse smetterla con le abbuffate e smettere di vomitare. Niente di più sbagliato. Quando sarò guarita sul serio, smetterò di provare le diete Dukan, le diete del minestrone e compagnia cantante. Ma non so se guarirò mai sul serio.


Sesso, amore e bulimia

«Gli specchi e la copula sono abominevoli, poichè moltiplicano il numero degli uomini»
(Finzioni, Jorge Luis Borges)

Quando ero innamorata o pensavo di esserlo ascoltavo spesso una canzone dei Massimo Volume che si chiama “Meglio di uno specchio”.

Visto? Non sono meglio di uno specchio?

Quando si trattava di me e te, ma anche quando si trattava di me e chiunque altro, la risposta era no, era sempre no. Semmai eri peggio.  Quando ero innamorata o pensavo di esserlo vomitavo sempre. Sulla tua presenza e nello spazio della tua assenza, su quello che non c’era. E ti odiavo perchè esistevi, e perchè il fatto che tu esistevi mi rendeva ancora più malata, e debole, e mi odiavo e mi facevo spesso del male perchè non potevo essere così debole, non avevo ancora capito che il corpo è rivolta gioiosa e non oppressione cupa, non gabbia genetica (e forse non l’ho capito ancora, ma ci sto lavorando).

Una volta avevo scritto un racconto. Parlava di Jim Carroll e di una ragazzina che aveva smesso di innamorarsi perchè ogni volta che s’innamorava vomitava. Era autobiografico anche se allora ancora non lo sapevo. Era una premonizione. Non m’innamoro più, non ne sono capace. Questa cosa, questa cosa che ho in testa, mi ha resa totalmente disempatica. Faccio i blablabla sul pornoattivismo, sulla liberazione dei corpi, nè leggo, nè scrivo e nè parlo, ma di fatto anche adesso che sto imparando a vivere attraverso il corpo e insieme al corpo,  ogni volta a stento a superare il gap del sesso, del mostrarmi completamente e totalmente nuda e negli ultimi due mesi, paradossalmente in parallelo con la guarigione, questo aspetto della malattia sta peggiorando. La verità è che ho quasi perso qualsiasi interesse. Ho provato a parlarne con qualche amica, mi hanno scambiata per “bacchettona”, mi hanno guardata come se fossi un’aliena.

Ma sono consapevole. Consapevole che anche in questo caso tutte le lotte sono la stessa lotta e la rivoluzione del corpo deve essere anche rivoluzione della vagina, che non può esistere una senza l’altra. Prima che sia troppo tardi.


Sono una stronza totale. Diario di una bulimica #1

Spietato. L’hanno definito così il mio modo di raccontarmi e l’ho apprezzato un sacco. Spietato, in quel caso, stava per “privo del punto di vista pietistico e autocommiserativo sulla questione” ed era una bella cosa.
L’aggettivo spietato comunque, oltre ad essere una canzone dei Baustelle se declinato al plurale, di solito ha un’accezione negativa, e probabilmente se adesso sono riuscita a diventare narrativamente spietata in senso positivo, è perchè per anni sono stata spietata nel senso di stronza totale.

E’ come gli israeliani. Pensi di essere uscito fuori dall’oppressione nazifascista e diventi nazifascista tu stesso, diventi oppressore. Diventi uno stronzo totale. Non c’è nessuna giustificazione per gli israeliani, non c’è nessuna giustificazione per il modo in cui mi comportavo io.

Avevo iniziato a vomitare in maniera sistematica e a perdere chili su chili. Dieci. Venti. Trenta. Arrivavano i complimenti, i “Come sei dimagrita” eccetera eccetera. La vergogna, l’insicurezza, il nascondersi, il deterioramento del rapporto con la mia immagine, l’incapacità a vedermi nuda, l’ipercriticità su ogni singolo dettaglio del mio corpo, sono arrivati dopo. In quei primi mesi ero semplicemente inebriata dai complimenti, avevo accantonato tutta la razionalità e, per farla breve, mi sentivo figa (anche se ancora non abbastanza). Ero così figa che da un lato continuavo a fare l’antifascista, la femminista e l’antisessista come sempre e dall’altro, forte della mia nuova formasmagliante, mi divertivo a giudicare e incasellare se non addirittura prendere palesemente per il culo selvaggiamente tutto il resto del genere femminile tranne tre o quattro persone. Le più prese di mira erano le “ciccione”. Le me di prima.
Il nemico ce l’avevo nella testa e non me ne accorgevo.

Ero una bastarda, ero una fascista, ero una stronza e adesso, adesso che da questa cosa sto uscendo fuori, adesso che sto risolvendo il conflitto col mio corpo, mi faccio schifo per questo. Non perchè prima di perdere i dieci, venti, trenta chili ero cicciona. Per questo. E adesso, adesso so che questa lotta è anche contro quelle che fanno le antifasciste, le femministe e le antisessiste ma poi sono delle stronze totali. Come ero io.


Diario di una bulimica: sull’autonarrazione come forma di resistenza

Non tengo un diario dall’età di dieci anni e fino a un paio d’anni fa non avrei mai scritto di me stessa, della mia vita, del mio privato, delle mie sensazioni. Lo facevo passare come un tentativo studiato per tentare di essere il meno autoreferenziale possibile ma si trattava di altro.

Mettersi a nudo, spogliarsi metaforicamente, rileggersi come guardarsi allo specchio: l’idea di tenere un diario era tutto questo e probabilmente ne ero spaventata, anche se allora non lo sapevo.  Ero malata prima di essere malata.

Dopo cinque anni di lotta, di resistenza, di guerriglia interiore, sotterranea, ho iniziato ad imparare a mettermi a nudo attraverso la scrittura, ho iniziato ad imparare a guardarmi rileggendomi, a riappropriarmi del mio corpo attraverso l’autonarrazione e a privare l’autonarrazione dell’aspetto autocommiserativo trasformandola in un vero e proprio atto resistenziale.

Poi è successo che grazie alle compagne di Femminismo a Sud la mia autonarrazione è diventata narrazione collettiva: contemporaneamente restava mia e trascendeva dall’essere mia, diventava di tutt*. La narrazione cambiava, cresceva, si arricchiva e parallelamente cambiava, cresceva e si arricchiva la capacità di resistenza. Sto guarendo anche grazie a tutto questo, ed è per questo che ho deciso, dopo una lunga riflessione, perchè ci vuole coraggio, perchè non è mai facile, di aderire al progetto Diario di una bulimica e di continuare a raccontarmi e a raccontarvi. Per continuare a lottare. Insieme.


Prova costume un cazzo. Riflessioni di una donna bulimica pt. 2

(la prima parte: “La bestia comunque era maschio: riflessioni di una donna bulimica a Natale” è QUI  e anche su Femminismo a Sud )

E’ sempre difficile parlarne e scriverne.  E’ tutto un’inventarsi stronzate per rispondere agli estranei che “Quanto sei dimagrita! Che dieta hai fatto?” e non puoi (nè tantomeno vuoi) spiegargli che da circa cinque anni mangi e vomiti e nell’ultimo anno lo hai fatto regolarmente, roba tipo pranzo-vomito-spuntino-vomito-cena-vomito, o addirittura nella versione extreme primo-vomito, secondo-vomito, eccetera eccetera. Inventi. Oppure svicoli (“No, sai, i dolci, ho tolto i dolci…”). E poi è tutto uno spiegare alle persone a cui tieni e che stimi qual è la verità e soprattutto come funziona la verità: “Sai, è che mangio e vomito “Ma non capisco…Mangi e vomiti perchè ti senti male dopo che hai mangiato e ti viene da vomitare?” “No, mangio e vomito perchè…”. Ed è tutto uno spiegare a tua madre che ti urla roba tipo “Smettila!” ogni volta che ti sente chiuderti in bagno che tu vorresti smetterla ma non è così facile.

Comunque ci provi. A smettere. Con tanto di  psicanalisi. Però sei ancora all’inizio e non è facile,  lo dici sempre anche a tua madre, lo sai,  è roba che studi, studi medicina,non ti aspetti di guarire in un colpo solo. Sei razionale. Poi arriva la fine di maggio. Arriva giugno. Arrivano i primi caldi. E di colpo non sei più razionale. E’ crisi. Ma ci rifletti e scopri che in fondo è un bel tipo di crisi.

L”ideogramma dell’alfabeto cinese per indicare “crisi” è una cosa bellissima perchè significa sia crisi che opportunità. Augusto Boal nel Teatro Dell’Oppresso usa l’espressione “crisi cinese” per indicare il momento in cui si dà agli attori (e agli spettatori) l’opportunità di trovare una soluzione all’oppressione messa in scena.

La maledizione della prova costume inizia anche prima della prova costume. Inizia con le paranoie sulle maglie, sulla difficoltà che apparentemente hai superato, ma che dentro probabilmente non supererai mai del tutto, a usare maglie, vestitini e roba varia ed eventuale che ti lasciano le braccia scoperte, quelle braccia che non ti piacciono, che continuano a non piacerti anche se alla fine il caldo ha la meglio sul tuo cervello.

Continua dividendoti in una serie di parti diverse l’un contro l’altra armate: una è quella che si spoglia, si vede grassa, e riprende a vomitare, senza mezze misure. L’altra è quella che prova a non vomitare ma si vede grassa lo stesso e scarica le versioni ebook dei libri e dei ricettari della dieta del signor Pierre Dukan, che adesso è tanto stilosa. Libri mai letti, per inciso. Poi ne esiste un’altra che quando le chiedono “Vieni a mare?” tende a rifiutare, a inventare scuse, a non andarci. Oppressa dalla prova costume e sconfitta.  Ancora, un’altra, tende al “Chi se ne fotte” e si dice da sola tutte le stronzate retoriche sulla bellezza interiore. Stronzate retoriche, per l’appunto. Che poi, tra l’altro, se una non si piace e si imparanoia perchè non si piace, diventa pure noiosa e quindi bye bye bellezza interiore.

Queste parti una soluzione non la trovano e finisce che funzionano a giorni alterni, come le targhe. Però ogni tanto queste parti si siedono insieme e riflettono. Riflettono sul fatto che Riots Not Diets non significa le suddette stronzate retoriche e da parrocchia & friends sulla bellezza interiore.  Significa prendere consapevolezza del fatto che il corpo esiste e soprattuto che il corpo è nostro, ci appartiene e siamo noi a doverne decidere la forma. Non i media nè nessun altro.  E’ difficile, perchè anni di condizionamento mediatico non si cancellano così in un attimo. E’ difficilissimo. Come tutte le rivoluzioni, perchè è di questo che stiamo parlando.

E’ difficilissimo. Io ci provo ad iniziare a reagire, e l’aver scritto questo post è stato un modo per provare ad iniziare a reagire. Ci provo.  Però non ci sono ancora riuscita, e quest’anno me ne vado in vacanza Islanda, così posso stare coperta.


La Aspesi, il “Femminismo-da-PD” e le teorie di merda sulla responsabilità delle madri dei maschi assassini e violenti

Sono una lettrice compulsiva. Mi capita, in certi momenti, di sentire il bisogno di leggere, e leggerei qualunque cosa. Comprese le etichette del bagnoschiuma. Comprese le copie del Venerdì di Repubblica che trovo sparse per casa (anche se quando voglio passare per intellettuale dico che lo leggo con spirito critico, per tenermi informata, eccetera, eccetera, eccetera, ça va sans dire). E poi, quando leggo, leggo tutto, compresi gli oroscopi, le scrittine delle pubblicità e la posta del cuore.
Sul Venerdì di Repubblica la posta del cuore è targata Natalia Aspesi. Natalia Aspesi è una figura nota e storica del giornalismo italiano (e se non avete idea di chi sia, google, wikipedia e via discorrendo) ma, soprattutto, Natalia Aspesi è il paradigma del Femminismo SNOQ, altresì definibile Femminismo-da-PD, quella roba borghese e radical chic che svuota il femminismo dai suoi significati reali e ne fa solo uno status quo per sembrare più progressisti, più fighi, più di sinistra (lol!), più più.

Sul Venerdì del 15 giugno 2012 c’è uno scambio assai interessante tra la signora “paradigma-del-Femminismo-SNOQ” e un suo lettore, tale Franco De Luca, sul tema della violenza sulle donne e del femminicidio. La teoria che il signor De Luca e la Aspesi sostengono sta, praticamente, nell’attribuire la colpa di tutto alle madri incapaci di educare i figli maschi (incapaci di “insegnargli a fare le pulizie di casa”!). Il signor De Luca fa passare il tutto come una roba pro-femminista e ci infila luoghi comuni tipo “E’ chiaro che reputo le femmine, le donne, l’essere fondamentale di questo mondo…”. Ai padri, alla responsabilità dei padri, fa solo un brevissimo accenno di due righe (molto probabilmente si tratta di un mero, squallido, tentativo di autogiustificazione): “Gli uomini, i maschi, i padri, cercano di sottrarre i figli da questi rapporti unilaterali…”.

Alla violenza sulle donne, al femminicidio, si risponde con altra violenza sulle donne, mediatica, verbale, ma pur sempre violenza. Bella merda.

Di seguito la trascrizione integrale della lettera e della risposta della Aspesi.

MAMME, INSEGNATE AI FIGLI MASCHI A DIVENTARE UOMINI

Parlo per interesse di parte, non vorrei che i maschi avessero tanti problemi dalle separazioni, dalla solitudine, dalla prostituzione, dalla violenza.
Dico alle mamme di insegnare ai figli a essere autonomi nel farsi il letto, nelle “faccende domestiche”; aiutateli ad avere rapporti con donne che esprimano una individualità non casalinga. Fate le madri come gli animali che insegnano senza creare dipendenza. La vostra gratificazione sarà rappresentata dalle scelte che vostro figlio farà con autonomia, non cercherà voi in un’altra donna. E quale conflitto potreste avere voi con sua moglie se il vostro compito sarà solo quello di insegnargli ad essere autonomo, soprattutto nell’amare?
Gli uomini, i maschi, i padri, cercano di sottrarre i figli da questi rapporti unilaterali; parlate di detersivi con i vostri amici, si campa di più. Rassettate dopo il preanzo, ci fa male sdraiarci pensando che noi lavoriamo fuori e questi sono lavori da donne. Voi madri siate autorevoli, costruite famiglie laiche sulla parità: tutti lavorano in casa e fuori, tutti costruiscono un progetto di diritto. Scriva di quant crea potere, diversificazione, l’organizzazione casalinga. Dia alle donne la certezza che i figli maschi hanno bisogno di un’educazione diversa. Apra un dibattito. La vita di un uomo parte dal rapporto con la madre e se questa madre auspica l’uguaglianza della figlia femmina deve educare il figlio in maniera diversa. E’ chiaro che reputo le femmine, le donne, l’essere fondamentale di questo mondo, chi dà la vita può aiutarci ad essere migliori.
Nel 2007 lei ha pubblicato questa mia lettera (nel numero 1014 del Venerdì). In tutti questi anni le donne hanno continuato ad essere uccise. La ripubblichi. Smuova quel popolo di donne a porsi il problema di come essere madri.

deluca.franco@libero.it

Natalia Aspesi, risposta

Ecco, ripubblico la sua lettera. Non credo basti insegnare ai propri figli a occuparsi dei lavori domestici per renderli, quando lo sono, meno violenti. Certo lei ha ragione nell’individuare nel rapporto madre-figlio maschio, spesso, una catena che potrebbe ostacolare il suo distacco dall’infanzia.
Che gli potrebbe far desiderare in ogni donna l’abnegazione, l’amore, l’autorità, il sacrificio, la dedizione della madre nei suoi confronti. Vedo attorno a me esempi sempre più allarmanti di questo amore materno che avvolge i bambini, poi gli adolescenti e poi anche i giovani in una specie di meravigliosa prigione che li protegge dalla vita, dai confronti, dalle sconfitte, dagli insuccessi, dal dolore. Difficilmente oggi i padri riescono a sottrarli a questa ragnatela d’amore e in questo senso contano meno, hanno meno autorità, sono meno amati. E le donne, che pure lottano contro la violenza, e riempiono a milioni le piazze, sono ancora restie ad affrontare il nodo del rapporto con i figli maschi. Le figlie femmine, pur amate moltissimo, sono raramente al centro di una vera e propria devozione e quindi diventano persone più mature, più libere, più sicure. Ovviamente il tutto in generale.


Piccola Storia Ultras

«Sei femmina, non giochi».

Quando ti va bene, invece, ti fanno stare in porta, però calciano forte, fortissimo, sperando che qualche pallonata in testa o nella pancia ti faccia capire che non devi più rompere il cazzo e piagnucolare ogni volta che decidono di mettersi a giocare.
Tu, l’unica femmina della piazzetta del quartiere, non ti rassegni, non soccombi: di calcio non sai niente, sai solo che “Maradona è meglio di Pelè” perchè tuo padre te lo ripete e te lo fa ripetere da quando hai imparato a parlare, però quella lì di giocare è una questione di principio, hai la testa dura, e restare seduta a guardarli mentre pettini una Barbie è noioso.

Così, ci mettono quattro o cinque anni ad abbatterti, a farti desistere fisicamente dal voler giocare almeno in porta. Fisicamente cedi, mentalmente no: quei maledetti maschilisti in erba non ce la fanno a farti entrare nel cervello l’idea secolarmente tramandata che tu da quello sport devi restare fuori, che una femmina che si interessa di pallone è quasi una stortura genetica. Le figurine dei calciatori e i cartoni di Holly & Benji sono la tua salvezza e ti danno la possibilità di mantenere relazioni sociali ed argomenti di conversazione comuni con quel gruppo di stronzetti con cui sei costretta per motivi geografici a passare quasi tutti i pomeriggi.  Intanto, con somma disperazione di tuo padre, tifi Juve, hai iniziato quando c’era Baggio e per colpa di un viscerale amore per quel codino ribelle, hai rinnegato il Napoli e hai dimenticato che Maradona è meglio di Pelè.

Alle scuole medie il maschilismo diventa istituzionale ed è la professoressa di educazione fisica ad imporre la segregazione: le femmine giocano a pallavolo, i maschi giocano a calcio. Non si discute, punto. E’ anche un po’ lo spirito di ribellione che, nonostante tutto, ti spinge a continuare a smerciare figurine -sia quelle Panini che quelle che escono dalle gomme- e a seguire con attenzione le sorti di due giocatori mediocri, Sergio Volpi e Paolo Poggi, diventati famosi solo per via delle figurine introvabili.

Liceo. A livello istituzionale continua la segregazione tra i maschi che giocano a calcio e le femmine che giocano a pallavolo ma non ti importa più di tanto perchè tu insisti nel continuare a mettere gli anfibi piuttosto che le scarpette da ginnastica e a passare le ore di educazione fisica a fumare nei bagni della palestra. Educazione fisica: l’unico cinque fisso in una pagella da secchiona. Gli anni del liceo, poi, sono gli anni dei primi collettivi: nel tuo cervello confuso da adolescente prendono posto concetti come femminismo e anticapitalismo e non riesci a farci stare insieme anche il calcio, è antitetico. Scegli di non risolvere il conflitto, lo eviti: espelli il calcio ed ogni sua emanazione, figurine ed Holly e Benji compresi, dal tuo cervello. I tifosi diventano pecore, le donne che seguono il calcio subiscono un’identificazione forzata con le oche e le galline, perlopiù spettatrici hardcore di quel capolavoro di trash che è Campioni, un reality show a tema calcistico, condotto da Ciccio Graziani, in onda dal 2004 al 2006. Tu leggi, vedi film, sei superiore rispetto a quelli lì: fai la libertaria, fai l’antirazzista eppure sul tema calcio sei diventata una piccola stronza razzista e classista, una di quelli che per cancellare il suo passato da calciomaniaca hardcore diventa d’un colpo zelantissima sul versante opposto, il versante “anti”.

La follia mondiale del 2006 comunque è contagiosa e riaccende per qualche tempo i germi futbolistici che tre o quattro anni di simil terapia Ludovico non erano riusciti ad estirpare. Gli anni di apparente disinteresse che seguono sono in realtà periodo di guerra fredda psicologica tra la parte anticalcistica e quella calciomaniaca, tra le ribellioni adolescenziali e gli amori infantili.

L’ultimo capitolo della storia è un happy ending: la risoluzione del conflitto, che passa attraverso le partite del Napoli che con grande gioia di tuo padre hai ripreso a seguire, un compagno che ti costringe a leggere Osvaldo Soriano, un turco sconosciuto che decide di usare Morgan De Sanctis come ponte translinguistico, Toni Negri e il catenaccio (un mucchio di stronzate, ndr), due tizi che hanno deciso di scrivere una roba sul tuo amore di un tempo, Roberto Baggio, e una banda di adorabili matti scatenati incrociati per caso.  Caso: lo stesso che ha fatto in modo che tutto questo avvenisse in un periodo storico in cui l’esigenza di narrazioni collettive è fortissima e noi siamo così matti da provare ad inventarcene una attraverso il calcio.

Stay hungry, stay fútbol.

Un festival di tre giorni a Bologna per ripensare il calcio.  A Ottobre.
Di giorno conferenze e incontri, di sera reading e concerti.
In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
John Foot, Simon Kuper, David Winner, David Goldblatt, Gianni Minà, Valerio Mastandrea, Paolo Sollier, Wu Ming, Guido Chiesa, Diego Bianchi, Mimì Clementi saranno con noi, anche per organizzare l’evento. Tanti altri amici italiani e stranieri continuano ad aggiungersi.
Tutti gli eventi congressuali saranno ad accesso gratuito. Grazie anche alle decine di volontari che hanno generosamente offerto il loro aiuto per l’organizzazione.

Tifa Fútbologia
Se vuoi ragionare sul calcio e divertirti con il calcio, se vuoi venire al festival o seguirlo su internet con liveblogging, eventi in streaming e pubblicazione degli atti, partecipa al progetto:
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Catastrofi e psicologia della stronzata (dai Lone Gunmen ai social network)

Paradossalmente uno degli effetti più lampanti dei social network è quello di ridurre esponenzialmente l’empatia umana: è evidente che nella maggior parte dei casi, piuttosto che socializzatori, come dovrebbe essere (almeno a quel che suggerisce il nome), tendono a diventare aggregatori di alienazioni solipsistiche, di egocentrismi e -soprattutto- di narcisismi.

Nei casi estremi -le catastrofi, le stragi- la componente egocentico/narcisistica emerge in maniera prepotente, quasi violenta, creando effetti domino mediatici e raggiungendo dimensioni spropositate nonchè spropositati livelli di fastidiosità. Restando nell’immediato, il riferimento chiarissimo è alle derive complottiste post-terremoto: drogati di Mistero/Voyager e grillini in un unico calderone di merda. Tra l’altro, quantomeno, i complottisti degli anni novanta/primi anni zero, erano più stilosi, narrativamente affascinanti, con richiami a X-Files e qualche eco da letteratura cyberpunk.  Questi, invece, sono squallidi. Una caricatura della caricatura.

Lungi da me, comunque, perdermi in una sorta di nostalgicismo sul bel complottismo di una volta a confronto col complottismo moderno. Il punto centrale della questione è perchè oggi anche su canali media mainstream si dà così tanta risonanza a questo genere di stronzate che un tempo erano narrativa underground per nerd brufolosi (tipo loro per intenderci).

Sicuramente una buona parte in tutta la questione la gioca il fatto che le stronzate abbiano un megafono visibile come Grillo (che, del resto, ha una buona parte di responsabilità anche nella perdita di qualità delle stronzate).  L’altra grossa parte nella genesi delle stronzate la fa il suddetto effetto di ipercatalizzazione delle componenti endogene narcisistico/egocentriche che le dinamiche dei social network tendono a tirare fuori da chi ne fruisce: di solito in circostanze drammatiche il “non sapere che dire” è una reazione quasi normale, umana. Nella socialvetrina, invece, il “non sapere che dire” è vietato, diventa un fallimento, una sconfitta per l’ego. E quindi, si dice e l’importante è che qualcosa si dica, anche se è una stronzata.

E pure tutta questa cosa qui sopra, probabilmente, è una stronzata.