trasloco

update: si trasloca a questo indirizzo. A breve riprenderò con post, rubriche & so on, meglio e più di prima. Stay tuned

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Due dita in gola #3 – Le ragazze stanno bene (nonostante tutto)

Avevo pensato ad altro per questa terza puntata di “Due dita in gola”. Volevo parlarvi delle mie percezioni alterate e di quella volta che ho bollato Kate Winslet come cicciona. Poi stamattina mi sono svegliata e ho iniziato a sentire in loop questo pezzo davvero bello del nuovo disco di Le luci della centrale elettrica che si chiama “Le ragazze stanno bene” e mentre lo ascoltavo pensavo ad un sacco di cose, una delle mie solite strane degenerazioni di uno stream of consciousness di Joyce, uno dei miei soliti monologhi interiori assurdi da film del Sundance. Pensavo a tutte le volte che sto bene anche quando non sto bene, pensavo a quando vomito e sono felice contemporaneamente, pensavo che oggi è l’otto marzo, pensavo all’articolo famoso del Fatto Quotidiano, quello di Beatrice Borromeo che non vi linko e di cui non voglio parlare, pensavo a me stessa, a Carla, Clelia e Claudio e a come ho scoperto il sesso a tredici anni ed iniziato ad ascoltare i Sonic Youth, ai miei amici disadattati e a Sjirin. Pensavo a tutte queste cose, e siccome sono sempre dell’idea che l’autonarrazione è una forma di resistenza, e mai come oggi resistere coi nostri corpi e nei nostri corpi è fondamentale, provo a raccontarvele tutte qui.

«Pensa: guarda qui, ci sono tutti i miei punti deboli
guardami mi lascio dietro degli spazi bianchi
Forse si tratta di accettare la vita come una festa»

Ero una bambina strana. Quando non ero impegnata a leggere o a suonare il pianoforte inventavo storie. Alcune storie le improvvisavo, usando le bambole come attrici. Altre le scrivevo. Scrivevo tanto, già allora. Scrivevo così tanto che le mie insegnanti di religione mi costringevano a buttare giù ogni anno una roba su Gesù Bambino e i bambini poveri per leggerla davanti a tutto il paesino in cui sono nata, la sera di Natale. Forse il mio ateismo attuale è un ateismo di riflesso. Oltre a scrivere, suonare, leggere ed inventare storie mi innamoravo, incessantemente. Avevo dato il mio primo bacio finto ed infantile a cinque anni, nel salone della scuola materna con le luci spente per provare la recita. Era il 1993 e la radio passava “Come Mai” degli 883. A sei anni ero stata coinvolta in un quadrato amoroso con il tizio del bacio su “Come Mai”, il mio vicino di casa e una mia compagna di classe.  Non ricordo i dettagli, ma ricordo che all’epoca sembrava tutto molto serio e molto importante.

Poi è iniziata l’epoca degli sconosciuti idealizzati, trasformati in personaggi dei miei mondi immaginari, quando non si trattava addirittura di attori, cantanti, personaggi di cartoni animati, personaggi di film, di libri o di telefilm. Scrivevo lettere. Mandavo bigliettini. Lo facevamo tutte. Ti vuoi mettere con me? Si, no, forse, ti prego, rispondi. Fogli di quaderni strappati, pagine di diario, o addirittura fazzolettini di carta scottex, perchè già allora ero un po’ punk senza saperlo. Intanto suonavo e sentivo i dischi in vinile dei miei che adesso sono diventati miei. De Andrè, Battiato, Neil Young, i Pink Floyd,  Eric Clapton e i Police. In quinta elementare mi innamorai perdutamente di Leonardo Di Caprio. Immaginavo la nostra vita futura insieme, o qualcosa del genere. Quell’anno non vinsi la borsa di studio per pochissimo e adesso quando ci ripenso mi viene da pensare a tutti gli Oscar sfiorati da Leo e rido. Vedi Leo? Due destini che si uniscono, direbbero i Tiromancino.

«Forse si tratta di affrontare quello che verrà 
come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà.»

Vidi il sesso da vicino per la prima volta in seconda media. Avevo tredici anni e Carla e Clelia erano le mie migliori amiche. Carla abitava vicino casa mia e stavamo sempre insieme. Andavamo a mangiare la pizza, passavamo i pomeriggi insieme, studiavamo insieme e soprattutto andavamo in sala giochi a sentire i dischi di HitManiaDance dal JukeBox, perchè ero in periodo di ribellione dai vinili da vecchi di mamma e papà (se ripenso adesso che c’è stato un periodo della mia vita in cui ritenevo Gigi D’Agostino e Prezioso superiori a De Andrè, Battiato, Neil Young e i Pink Floyd mi vorrei sotterrare ma tant’è). In sala giochi conoscemmo Claudio che aveva ventidue anni ed era epilettico. All’epoca non avevo idea di cosa fosse l’epilessia, non sapevo ancora assolutamente niente di medicina e non conoscevo nemmeno i Joy Division. Ero solo una ragazzina che vedeva questo ragazzo svenire, contorcersi e sbavare ogni tre per due e gli adulti piuttosto che spiegarci quello che gli succedeva ci mandavano via per evitare che vedessimo, come se fosse uno spettacolo indegno, come se la malattia, l’epilessia di Claudio, fosse qualcosa di osceno. Comunque, Claudio non era affatto bello, ed era più grande di noi, ma Carla, la mia amica Carla, ne rimase affascinata. Si fidanzarono. Un po’ di tempo dopo Carla raccontò a me e Clelia di come lei e Claudio avessero fatto sesso. Lei aveva quattordici anni all’epoca. Io ne avevo tredici ed era la prima volta che sentivo parlare di sesso in quel modo da una coetanea, da un’amica. Nel giro di qualche mese la storiella tra Claudio e Carla venne allo scoperto e il padre di lei fece scoppiare un pandemonio tirando in ballo addirittura il termine pedofilia, del cui significato all’epoca ero all’oscuro. Tra le altre cose venne a casa mia e di Clelia, due bambine di tredici anni, urlandoci addosso perchè avevamo coperto “quel porco che stava con la figlia”. Così disse. E ci tolse Carla, le fece cambiare scuola ed amicizie. Piansi. Poi iniziai a vestirmi di nero e ad indossare anfibi e diventai l’unica in questo paesino del Sud ad ascoltare i Sonic Youth (cit). Clelia iniziò a fumare e a frequentare anche lei ragazzi molto più grandi.

(screencap da “Ghost World” di Terry Zwigoff, 2001)

«Forse si tratta di dimenticare tutto come in un dopoguerra
e di mettersi a ballare fuori dai bar (…)»

Oggi, a più di dieci anni di distanza ho imparato a conoscere il sesso, ho imparato cos’è l’epilessia e cos’è la pedofilia, sono totalmente disfunzionale dal punto di vista affettivo e tutti i miei amici, fondamentalmente,  sono dei disadattati o quasi quanto a relazioni interpersonali.  Quando ripenso alla storia di Carla e Claudio, ancora oggi,  non riesco a vedere lei come una poco di buono e lui come un porco adescatore di ragazzine. Lui era un ragazzo di ventidue anni emarginato dai suoi coetanei e dagli adulti a causa dell’epilessia, lei era la ragazza nuova, quella adottata, che veniva dal Sudamerica. Probabilmente se non fosse stato così non avrebbe creato nemmeno così tanto scandalo. Carla e Claudio stavano bene insieme, erano sicuri di sè stessi, e quando lei parlava di sesso sembrava più consapevole e responsabile di una buona percentuale dei miei amici trentenni attuali.  L’unica violenza che continuo a vedere in questa storia è quella dei pregiudizi, delle costruzioni, delle strutture e del perbenismo buonista degli adulti.

Adesso, quando Sjirin che ha nove anni e qualche volta fa i compiti con me, mi racconta delle sue giornate a scuola e dei suoi amici e degli intrecci amorosi mi rendo conto che le ragazzine di adesso sono esattamente uguali a quelle degli anni novanta. La cosa triste è che poi mi rendo conto anche, dagli articoli come quello della Borromeo e dai commenti che ne sono scaturiti, che nemmeno i pregiudizi e il perbenismo di molti adulti sono cambiati.

«Forse si tratta di fabbricare quello che verrà
con materiali fragili e preziosi
senza sapere come si fa»

(Comunque oggi ho perso di vista tutti i protagonisti della storia ma so che Clelia si è sposata di recente, Claudio ha una pizzeria sua, Carla è unapersona ordinaria, si è laureata in biologia ed è fidanzata da diversi anni con un suo compagno di corso, il tizio del mio primo bacio finto con gli 883 come colonna sonora ha un figlio di un anno, e gli altri due tizi del quadrato amoroso in cui ero coinvolta alle elementari stanno per sposarsi. Tra loro)


Due dita in gola #2 – Young and beautiful

(title track »  Young and Beautiful – Lana del Rey)

Ci sarebbero un sacco di cose da dire per commentare l’intervista a Sara Ziff su Salon sui segreti del mondo della moda. Potrei parlare di quanto sia brutto e triste quell’ambiente ma è un ambiente che non conosco (a meno che l’aver visto “Il diavolo veste Prada” non valga come conoscenza) e rischierei di scadere nella ripetitività o in banalità pietistiche che non mi appartengono. Potrei soffermarmi sulla questione della lotta trasversale delle modelle insieme ai tessili bengalesi, ma per quanto sia una cosa interessante e da approfondire, rischierei di andare fuori tema. Perciò, parlerò della frivolezza. Avete capito bene. La frivolezza. Avevo già affrontato l’argomento in uno dei primi post dedicati a questa cosa della bulimia con cui convivo da ormai quattro anni e mezzo, nello specifico quando riportavo una delle frasi che mi sentivo dire più spesso da amici e conoscenti a riguardo, ovvero «Sei troppo intelligente per…», e l’insistenza della Ziff, nell’intervista, su come dall’esterno il suo ambiente di lavoro sia percepito come frivolo, mi ha colpita molto.

Mi sono ricordata di quando ero adolescente,  nel primo decennio del nuovo millennio, e mi barcamenavo tra libri, musica, aule autogestite, centri sociali, cortei, collettivi vari ed eventuali ed occupazioni.  Sono stati anni bellissimi, importanti per la mia crescita e blablabla, cose belle a palate che non sto qui a raccontarvi, mi risparmio il nostalgicismo triste e lo risparmio a voi. Vorrei parlarvi, piuttosto, dell’aspetto tremendo dell’essere stati adolescenti nei circuiti alternativi dei primi anni zero (perlomeno nei miei): la repressione della frivolezza. Le pashmine andavano bene, a patto che non fossero rosa o argentate. Le magliette dei gruppi andavano bene, anche se dipendeva dal gruppo. Felpe, ok, se col cappuccio meglio. Per il resto qualsiasi manifestazione anche vaga di entità come strass, tacchi, colori pastello, marche diverse da Converse, Eastpak e poche altre a vista, lampade, accenni al fatto di aver visto un qualsiasi programma televisivo anche solo di sfuggita (con bonus per il Festival di Sanremo) e via discorrendo significavano morte sociale. O comunque, dovevi inventarti scuse plausibili e svicolare in qualche modo per giustificare il cardigan Ralph Lauren tarocco comprato con tanto entusiasmo dalla tua genitrice ignara del danno che ti avrebbe causato.  Era bianco o nero, aspetto fisico o cervello. I fighetti erano quelli dell’aspetto fisico, noi eravamo quelli del cervello, quelli che “L’aspetto fisico non conta”, e qualunque dichiarazione contraria al diktat innescava negli interlocutori lunghi, infiniti monologhi su come la cultura capitalista dell’immagine ci stesse contagiando e via discorrendo (e per fortuna all’epoca ancora nessuno aveva letto Debord).

(photo credits: Nika Alexandra)

Quando mi sono ammalata sono passata all’estremo opposto, all’iperattenzione per tutto quello che riguarda il mio corpo: nei rari momenti in cui la linea non occupa i miei pensieri, mi dò alle maschere facciali, mi angoscio per le doppie punte, per i piedi, per le mani, per le labbra, per il poco seno, per la voce e per qualsiasi centimetro di pelle insignificante che il mio cervello giudica inferiore rispetto ai suoi elevatissimi standard.

Non sono brava ad autopsicanalizzarmi e arrivare all’origine del punto di rottura tra le istanze anti-immagine della me adolescente e l’iperattenzione della me attuale, però ci terrei particolarmente a chiudere con una considerazione più ampia che esula dal mio vissuto personale:  se analizziamo il discorso sul femminile nel contesto politico italiano troviamo lo stesso passaggio brusco da una divisione netta tra il femminile competente ed austero e quello frivolo (“il cervello e l’aspetto fisico”), con conseguente repressione dell’ aspetto frivolo a un’esaltazione eccessiva del frivolo. Basti pensare da un lato al fatto che le critiche serie di (de)merito politico a una Carfagna o a una Santanchè sono state molto poche, nella stampa mainstream, se paragonate alle critiche sulla volgarità dell’immagine, sul fatto che offrissero un’idea di donna mercificata (vedi i discorsi di sopra) e via discorrendo e dall’altro all’articolo di Repubblica di qualche giorno fa sul look delle ministre del governo Renzi.  Da un lato la critica dell’immagine, dall’altra la sua esaltazione eccessiva. Non so di preciso che significa e non so come uscirne ma penso che sia un discorso da non sottovalutare anche quando si intraprendono percorsi di lotta collettivi: basta con le Veline e con gli articoli sulle look delle ministre, ma anche basta con questa repressione eccessiva della frivolezza. Se mi metto lo smalto non mi sto vendendo al capitalismo or something like that


Liposuzioni, disturbi dell’alimentazione e coercizione sessuale: gli oscuri segreti dell’alta moda

Nota: Quella che segue è una mia traduzione di un’intervista comparsa sul magazine online statunitense Salon.com all’ex modella Sara Ziff, riguardo a disturbi dell’alimentazione, tentativi di organizzazione e mobilitazione collettiva tra modelle e lavoratori tessili bengalesi, liposuzioni, canoni estetici, e via discorrendo. Tra qualche giorno arriverà la seconda puntata della rubrica “Due dita in gola” con un mio commento argomentato sull’intervista. Chiaramente, intanto, se volete, potete commentare ed esprimere i vostri pareri sull’intervista e sull’attività della Ziff in questo post.
A questo link trovate il testo originale .

                                                                               (Sara Ziff, foto da intervista originaria su Salon. Credits: Jeff Tse)

«Lavoriamo in un’industria che è percepita come frivola, quindi le nostre preoccupazioni a riguardo non vengono prese sul serio», dice la modella Sara Ziff, che è stata il volto di Tommy Hilfiger e Banana Republic e ha sfilato per Calvin Klein e Chanel. La Ziff fa la modella da quando ha quattordici anni, nel 2009 ha raccontato le brutte storie dell’industria della moda nel documentario “Picture Me” e due anni fa ha fondato l’associazione Model Alliance. In un’intervista durante la fashion week, la Ziff ha raccontato le storie perlopiù nascoste di coercizione sessuale, mancati pagamenti e disturbi dell’alimentazione, ha discusso con noi del suo impegno per incentivare la solidarietà tra i lavoratori del fashion system USA e i lavoratori tessili del Bangladesh e ha provato a riflettere sulle azioni che la sua associazione potrebbe fare per avere una qualche risonanza in un sistema con un giro di affari di mille miliardi di dollari. Trovate di seguito una versione ridotta della conversazione:

Quanto è diversa la realtà del fashion system dal modo in cui la maggior parte degli americani immagina quest’ambiente?

L’industria della moda sembra molto affascinante e rendere invisibile la fatica, è parte delle mansioni di una modella. Sapete, si tratta di far sembrare all’esterno che l’essere belle ed attraenti siano cose semplici, per cui non occorre alcuno sforzo.

Quali sono gli abusi più gravi e diffusi che hai avuto modo di vedere nel corso della tua carriera da modella e come fondatrice della Model Alliance?

Personalmente mi sono impegnata a fondo per dare risalto alla questione del lavoro minorile, anche per i miei trascorsi personali…Spesso ragazze di 14, 15, 16 anni fanno da modelle per linee d’abbigliamento destinate a donne adulte…Non hanno nemmeno sviluppato i fianchi o il seno…
Sono apprezzate per le sembianze androgine, per la magrezza e per l’altezza. E quindi spesso si ritrovano in un ambiente lavorativo adulto, sottoposte a pressioni che non riescono ad affrontare perchè non ne hanno la maturità necessaria. Sono anche costrette a mantenere quel tipo di fisico e ciò in molti casi è quasi impossibile, perchè chiaramente, sapete, il corpo di una ragazza cambia, con la crescita. Praticamente le ragazze sono spinte a tentare di impedire ai propri corpi di svilupparsi. La critica relativa al fatto che l’industria della moda promuove un ideale fisico non sano, e che le modelle sono troppo magre, è legittima, ma quello che molte persone ignorano o non considerano è che ciò è dovuto all’assumere ragazzine piuttosto che donne.

Abbiamo sostenuto un disegno di legge che dà alle modelle minorenni le stesse protezioni degli altri child performer newyorkesi. Il Governatore Cuomo l’ha approvata ad ottobre, dunque questa è la prima Fashion Week durante la quale le modelle minorenni sono tutelate: orario di lavoro definito, conti fiduciari, disposizioni per accompagnatori e così via. Le modelle adesso devono avere un permesso di lavoro e per ingaggiarle bisogna ottenere un certificato apposito: c’è abbastanza burocrazia e seccatura da farmi pensare che durante questa Fashion Week vedremo meno bambine e più donne…dai 18 anni in su, quantomeno. Tra l’altro questa cosa è positiva anche perchè le ragazze possono quantomeno finire la scuola superiore prima di dedicarsi alle loro carriere. E penso che offra anche un’immagine più realistica ai consumatori.

Quando parli del fatto che le ragazze sono spinte a tentare di impedire ai propri corpi di cambiare a cosa ti riferisici di preciso?

A quattordici anni il tuo corpo si sta ancora sviluppando. Un sacco di modelle che ho conosciuto – chiaramente, parlo della mia esperienza, non sto dicendo che questa sia la verità assoluta – hanno sviluppato disturbi dell’alimentazione…Quando invecchiano e si guardano alle spalle, riflettono sulle loro carriere, si rendono conto di aver fatto troppe diete e troppo esercizio fisico. E ho parlato con molte modelle che non hanno più il ciclo, a causa degli sforzi eccessivi a cui hanno sottoposto il proprio corpo per restare magre. E questa pressione costante non è affatto subdola come si potrebbe pensare…A volte è davvero molto esplicita. Ho visto contratti stilati da agenzie di moda in cui si stabilisce che i fianchi della modella possono aumentare al massimo di due centimetri. E se la ragazza che firma il contratto ha tredici o quattordici anni…beh, è naturale che i suoi fianchi aumenteranno. Ecco di cosa parlavo prima.

A cosa conduce questa pressione?

In alcuni casi porta a disturbi dell’alimentazione o ad un’alimentazione disordinata…Alcune ragazze arrivano a stadi molto avanzati e alla fine devono entrare in cura. E’ un problema psicologico ed è complicato, e non dico che la colpa sia solo del fashion system perchè ci sono molte influenze culturali in gioco…Però quando facevo la modella a tempo pieno, ed ero all’apice della mia carriera, non me ne rendevo conto, e solo adesso, ripensando a quel periodo, mi sono resa conto che quando dovevo posare per dei servizi non mangiavo in maniera proprio sana, per fare in modo che i vestiti mi stessero bene.

Conosco una modella molto affermata, che ha lavorato per tutte le riviste più importanti…La sua agenzia le chiese di sottoporsi ad una liposuzione quando era ancora alle superiori. E…Beh, questa cosa le ha portato un sacco di problemi di salute. Non voglio sensazionalizzare le cose. Tra l’altro credo che alla gente piaccia sentirsi dire cose come «La realtà è diversa dalla vostra percezione, e i modelli sono tutti Photoshoppati», però il punto è che non è sempre così. Però di sicuro l’impatto su una donna di un’ideale di bellezza costruito su corpi di ragazzine adolescenti è davvero dannoso. Oltre ad essere un problema lavorativo per le ragazze.

L’anno scorso in un incontro con la National Eating Disorder Association hai detto che in qualche modo ti vergognavi di essere complice di promuovere lo stereotipo di ragazza bianca, magra e bionda. Credi che questo stereotipo sia necessario per la sopravvivenza del fashion system?

Di sicuro. Anche se penso che l’industria della moda si stia evolvendo, seppur lentamente. Gli addetti ai lavori fino a qualche anno fa avrebbero fatto fatica anche solo a riconoscere l’esistenza di problemi come l’esistenza dei disturbi dell’alimentazione o di criteri di assunzione razzisti, e così via, quindi già il fatto che oggi si riesca a parlare di queste cose e che persone che rivestono posizioni di potere all’interno di questo business siano disposte a riconoscere questi problemi dimostra che il cambiamento esiste ed è possibile. Ma credo che abbiamo molta strada da fare ancora.

La tua associazione ha condotto una ricerca dalla quale è risultato che al 64% delle modelle è stata richiesta una perdita di peso da parte delle agenzie. Di chi credi che sia la principale responsabilità riguardo a ciò?

Per dirla in parole povere, la responsabilità è di tutti. Le modelle incolperanno le agenzie per i contratti di cui parlavo prima, quelli che impongono un aumento massimo di due centimetri sui fianchi o le diete estreme per la Fashion Week. Le agenzie, di contro, diranno che la taglia modello di un capo è una zero o una due, e che, per lavorare, le modelle che rappresentano devono avere determinate misure, quindi daranno la colpa ai designer per aver imposto quelle misure. I designer risponderanno che sono gli editori delle riviste di moda a spingerli a creare capi che rientrano in determinate misure, e così via…C’è una sorta di gioco delle colpe, insomma. Credo che per fare in modo che le cose cambino e che tutti i soggetti del fashion system inizino a lavorare per un obiettivo comune, si dovrebbe smettere con questo puntarsi il dito contro a vicenda.

L’anno scorso, durante una conferenza, hai proiettato un pezzo del film “Girl Model” in cui i rappresentanti di un’Agenzia di moda asserivano ufficialmente di preferire le ragazze molto giovani, perchè, a differenza di quelle tra i sedici e i diciotto anni, che sono già in grado di pensare indipendentemente, sono più facilmente manipolabili e obbediscono più facilmente agli ordini. Quanto è rappresentativo tutto ciò della realtà del rapporto tra gli agenti e le modelle bambine?

Beh, è piuttosto rappresentativo, anche se credo che nessun agente lo direbbe esplicitamente, o riconoscerebbe di trattare le modelle con cui lavora in un modo che rasenta lo sfruttamento. Ma chiaramente è più facile lavorare con persone accondiscendenti e che non fanno domande e generalmente una ragazzina non è in grado di difendere i propri diritti come potrebbe fare, invece, una donna adulta.

In che modo questo comportamento influisce su forme di molestie sessuali?

Credo che questo sia un discorso generico, non riferibile alla sola industria della moda: più grande è una donna, più è sicura di sè quando deve difendere i propri diritti e denunciare comportamenti inappropriati – che siano molestie sessuali o qualunque altra cosa. Quando avevo quattordici anni mi è stato chiesto più volte di posare a seno scoperto e…So che può sembrare strano, ma non sapevo che avrei potuto dire di no. E sapevo che non era una cosa giusta, ma volevo solo piacere, ed ero circondata da adulti in posizione di autorità ai quali avevo accettato di obbedire. Se oggi, a 31 anni, mi trovassi in una situazione del genere, direi «Mi dispiace, non lo faccio», e non avrei problemi a difendere i miei diritti. Ma c’è un motivo…Le bambine sono trattate in un modo diverso rispetto alle adulte anche dalla legge, perchè non hanno la maturità e la forza necessaria a dire di no a determinate domande.

Nel sistema giudiziario americano le modelle non possono sporgere denuncia per molestie sessuali sul lavoro perchè l’industria sostiene che siamo lavoratrici indipendenti e quindi, come gli altri freelancer, non abbiamo forme di tutela dalle molestie sessuali, non ci sono basi minime per i compensi, e così via…

Il “Village Voice” ha pubblicato una recensione molto negativa sul tuo film “Picture Me”, nel 2010. Tra le altre cose c’era questa frase: «Per favore, versate qualche lacrima per Sara Ziff, alla sua prima esperienza da regista. E’ una ragazza bianca, giovane, bella e bionda, figlia di un professore di neurobiologia e di un avvocato, che ha avuto una vita difficile fatta di anni passati a sfilare sulle più importanti passerelle del mondo». Ci sono state molte reazioni simili, riguardo al tuo film? Come replichi?

In realtà ho sentimenti contrastanti riguardo al film. Penso che alcune delle scene che abbiamo tagliato fossero molto più incisive e rivelatorie rispetto a quelle che abbiamo scelto per la versione definitiva – che mostravano la mancanza di trasparenza economica, trattenute sugli stipendi, casi di stupro, molestie sessuali e abusi su minorenni. Tra l’altro, nel girare il film, mi sono trovata in una posizione molto difficile perchè volevo raccontare in maniera veritiera la mia storia e permettere anche ad altre modelle che avevano subito maltrattamenti di raccontarsi, ma non tutti si sentono a proprio agio nell’esporre informazioni così personali in un film destinato a un pubblico molto vasto. Quando ho girato il film, io e altre modelle abbiamo parlato in camera senza filtri, ma non sapevamo che quella roba sarebbe diventata un film che tutti avrebbero potuto vedere: era una specie di progetto personale a cui ho lavorato, con alti e bassi, per diversi anni e lo vedevo come una specie di video diario. Non avevamo un budget, non avevamo certezze dal punto di vista cinematografico, era un film amatoriale e nient’altro. Ma poi l’abbiamo presentato ad un festival e…E’ stato distribuito su larga scala, ed è come se avesse preso vita da solo…

Ho provato ad essere una buona narratrice, ma anche una buona amica per le modelle preoccupate di finire sulla lista nera. E questa paura era molto reale, quindi ho scelto di tagliare alcune parti molto incisive. Però sono ancora convinta di aver fatto la scelta giusta a riguardo. Comunque, sono soddisfatta, credo che, anche grazie al film, siamo riusciti ad ottenere un minimo di coscienza riguardo ai problemi lavorativi che riguardano il mondo della moda, e qualche piccolo cambiamento.

Per il resto, so che, essendo una bionda, bianca, giovane e carina che ha lavorato nel mondo della moda, non sono un personaggio simpatico, ma devo dire che c’è una sorta di pregiudizio nei confronti delle persone nella mia posizione lavorativa, perchè siamo viste come privilegiate e lavoriamo in un’industria percepita come frivola, quindi le nostre preoccupazioni, i nostri problemi, non vengono presi sul serio. Ma facciamo un lavoro, e dobbiamo essere trattate in maniera corretta come chiunque altro che lavora per vivere. Non dovremmo essere costrette a sopportare abusi sessuali o orari lavorativi disumani, dovremmo poter avere una pausa pranzo, o pagate in modo equo per il nostro lavoro…Ma mi rendo conto che molta gente vede solo la facciata glamour del nostro settore, e quindi ha difficoltà a simpatizzare con una persona nella mia posizione.

Ad un incontro con i lavoratori tessili bengalesi hai detto che la moda è «un’industria costruita sulle spalle di giovani uomini e donne che vogliono avere voce in capitolo riguardo al loro lavoro». Come e dove vedi il collegamento tra i lavoratori tessili bengalesi e il tuo lavoro?

La New York Fashion Week e l’industria tessile bengalese sembrano cose lontanissime. E ci sono le modelle da un lato e i lavoratori tessili dall’altro, che si trovano in condizioni socioeconomiche molto diverse, ma sia noi che loro vogliamo provare a far sentire la nostra voce, in ambienti lavorativi molto ostili. Ieri Kalpona Akter, la direttrice del Bangladesh Center for Worker Solidarity ha dichiarato che le fabbriche sindacalizzate sono meno dell’1%. E dal mio punto di vista di modella ho pensato che nemmeno noi possiamo avere forme di tutela sindacale perchè siamo lavoratrici freelance, indipendenti.

Chiaramente sono consapevole del fatto che qualsiasi tipo di paragone diretto tra i lavoratori tessili in Bangladesh, un Paese in cui le donne ricevono i compensi più bassi del mondo e rischiano la propria vita per il solo fatto di svolgere il proprio lavoro, è problematico. Quindi credo che sia importante fare un passo indietro e riconoscere che è il fashion system col suo giro d’affari da mille miliardi di dollari ad influire anche sulle vite dei lavoratori bengalesi. E sapete, le modelle hanno una grossa visibilità, a differenza dei lavoratori bengalesi e mi piacerebbe vedere le modelle simbolo di brand come Calvin Klein e Tommy Hilfiger parlare nelle interviste anche del fatto che la PVH ha firmato l’Accord on Fire and Safety Building in Bangladesh, ecco.

Non mi aspetto che le modelle inizino a fare picchetti o accuse, o roba del genere…E’ difficile quando il tuo lavoro è la tua stessa immagine e quando il rischio di perdere il lavoro per cose del genere è molto reale. Ma penso che le modelle possano, in qualche modo, essere solidali con le persone che fanno i vestiti che indossano. Come ha dichiarato Scott Nova, il direttore del Worker Rights Consortium, è una cosa interessante perchè è inaspettata.

Comunque lavoriamo tutti per le stesse compagnie e catene di distribuzione, in realtà per me la connessione è molto ovvia.

Quando ho parlato con Kalpona, un paio di mesi fa, ha detto «Alla fine siamo sfruttati dalla stessa industria» e «gli abusi sono gli stessi» e ha dichiarato che vede del potenziale negli sforzi per «porre termine a questo sfruttamento con una prospettiva che riguardi tutta la catena di mercato». Come pensi che ciò potrebbe sembrare, e quanto supporto trovi riguardo a ciò tra le modelle statunitensi?

Negli altri settori la gente trova nuovi modelli per organizzarsi. So che la gente nel mondo della ristorazione e nell’industria del cibo cerca di organizzarsi in questo modo, ma è comunque una cosa abbastanza nuova. Siamo…E’ un esperimento, insomma. E’ qualcosa a cui stiamo ancora pensando.

Quanto supporto si trova? Credo che ci sia bisogno di un grosso lavoro per educare la gente che sta dal mio stesso lato di questo settore riguardo a questi problemi. Ero nel backstage di un fashion show un paio di giorni fa, e ho chiesto a diverse modelle…Se sapessero qualcosa della frana di Rana Plaza, che ha ucciso più di 1000 persone in Bangladesh, e nessuna ne era informata, non ne avevano nemmeno mai sentito parlare. Ma hanno voluto saperne di più…Non è che queste ragazze siano insensibili, è che vivono in un mondo dove in un certo senso sono…mantenute nell’ignoranza, ecco. Vedo molto potenziale nell’aiutare e rendere più forti queste ragazze – tra l’altro, che loro ne siano o meno consapevoli, hanno l’attenzione dei media, e quindi possono fare molto per aiutare le giovani donne invisibili del Bangladesh…

In questo momento sto cercando di capire come promuovere e dare vita ad un’ambiente lavorativo in cui ci sia più consapevolezza riguardo a quello che succede alla base della catena di mercato.

La Model Alliance è solo una delle centinaia di associazioni emerse nei decenni passati, attraverso le quali i lavoratori freelance provano ad organizzarsi e mobilitarsi per ottenere delle tutele. Secondo te in che modo può la Model Alliance imporsi per cambiare qualcosa nel fashion system?

Il potere più ovvio che abbiamo è una grossa visibilità. Voglio dire, siamo i volti di questi brand e quindi riceviamo molta copertura mediatica…Quando una modella molto in vista dichiara pubblicamente di essere stata costretta a perdere peso, e dice di aver sviluppato disturbi dell’alimentazione e problemi di salute…può finire nelle prime pagine dei quotidiani o di magazine rilevanti. Quindi credo che il nostro potere più grande sia una conseguenza diretta del potere della stampa. E, come ho già detto prima, dovremmo riconoscere che abbiamo praticamente un pulpito a disposizione, abbiamo molta visibilità, e quindi potremmo indurre i leader del settore a fare qualche cambiamento.

Come è cambiata la relazione della Model Alliance con i leader del fashion system in questi due anni?

Beh, penso che da quando la Child Law è entrata in vigore la gente ci prenda un po’ più seriamente. Nei sette o otto anni passati ci sono stati diversi sforzi per promuovere la salute nell’industria della moda e ci sono state delle linee guida che suggerivano agli stilisti della New York Fashion Week di non usare modelle sotto i sedici anni, ma era tutto piuttosto astratto. Adesso, per la prima volta, anche grazie agli sforzi della Model Alliance c’è una legge nero su bianco che si assicura davvero che gli stilisti provino a dare vita ad un ambiente lavorativo più sano…Credo che il fashion system si sia accorto di ciò, che abbia preso nota, perchè abbiamo visto dei cambiamenti nelle assunzioni, non solo riguardo all’età delle modelle. C’è più diversità…Basta pensare al fatto che fino a qualche anno fa il 90% dei Runway Show era costituito interamente da sole modelle bianche. Adesso sarebbe un passo falso fare una cosa del genere…Ci sono dei cambiamenti, e credo che sia un risultato del fatto che…La gente ci prende un po’ più sul serio.

(L’intervista originaria è di Josh Eidelson per Salon. La traduzione, come detto sopra, è mia.
Se trovate grossi errori, segnalatemelo pure)


Due dita in gola#1 – Hard to explain

(title track › Hard To Explain – The Strokes)

A voler essere corretta avrei dovuto scrivere “title track a metà” o “half title track“, tutto in inglese che è più figo. La prima parte non ha nessun nesso con gli Strokes, a parte le numerose dita in gola da “Vomita che poi stai meglio” durante le sbronze di Casablancas e soci, forse. Comunque, come al mio solito, sto divagando e non essendo David Foster Wallace non me lo posso permettere. Sto ancora divagando, la smetto.
Due dita in gola” è il titolo che avrà la nuova rubrica più o meno fissa che terrò su questo blog per raccontare in maniera più sistematica ed ordinata, o almeno provarci, tutte le vicende, le sensazioni, le riflessioni e via discorrendo in diretta dall’esclusivissimo club dei disturbi alimentari. So che il titolo fa schifo, ma l’alternativa era Vomit Stories quindi fatevi andare bene Due Dita in Gola, please. So anche che quelli di voi che mi conoscono hanno iniziato a ridere forte al “più o meno fissa” e al “sistematica e ordinata” e non hanno ancora smesso. Diciamo che ci provo. Diciamo che “più o meno fissa” vuol dire che una volta a settimana, su questo blog, troverete un pezzo di questa rubrica, ecco.

Veniamo al perchè. Non è perchè sono una stronza egocentrica desiderosa di aumentare il mio Klout Score spammando in giro post sul fatto che sono una poverapiccolatenere giovane bulimica. O se è così non me ne rendo conto, è inconsapevole. E’ perchè ne ho bisogno, e perchè (punto in alto) vorrei che il mio bisogno aiutasse anche altri membri del club esclusivo dei disturbi alimentari di cui sopra e le persone che gli stanno intorno. Quantomeno, come antidoto contro la solitudine, per ricitare il suddetto David Foster Wallace. L’autonarrazione (e la condivisione dell’autonarrazione) come forma di resistenza, per citare me stessa.

                                                                                                 (image credits:  kittyhell)

Nella prima metà del 2013, quando pensavo ingenuamente di essere completamente guarita, solo perchè avevo smesso col vomito sistematico, non riuscivo più a raccontare, a tratti non riuscivo quasi più nemmeno ad ammettere di essere stata una bulimica, e adesso, riflettendo su quel periodo, mi rendo conto di quanto l’autonarrazione, che all’inizio mi era sembrata una cosa facile e scorrevole, una medicina miracolosa che mi faceva stare meglio e una bella forma di lotta, sia invece una strada impervia ed accidentata. Ho passato mesi ad evitare di espormi. Non ho nemmeno più risposto ad una ragazza che mi aveva chiesto un’intervista per la sua tesi di laurea in psicologia sui disturbi alimentari (shame on me, lo so).  La verità è che dopo la fase dell’odio per il corpo, arriva la fase dell’odio per la testa:  si inizia a pensare che nessuno vorrebbe avere a che fare con una persona difficile come te e quindi si prova a fingere di non esserlo. C‘è un pezzo di “Trilogia della Città di K” della Kristof che dice «Sarebbe meglio essere biondi e belli, piuttosto che intelligenti» e ne avevo fatto il mio mantra, o giù di lì.

Adesso ho una ricaduta e sono troppo impegnata a vomitare per pensare a come fingere di non farlo. L’aspetto positivo, se vogliamo trovarcene uno, è che riesco di nuovo ad autonarrarmi, a condividere, e mi rendo conto che probabilmente farei bene a non smettere anche quando sarà passata. Ci provo. Non vi assicuro niente, ma ci provo.


L’eterno ritorno (o del perchè il problema, più che il grillismo, è il kissingerianismo)

Il titolo di questo post è sbagliato per tre motivi: il primo è che “eterno ritorno”  è un termine troppo poeticamente filosofico, rischio seriamente di far rivoltare Nietzsche nella tomba. Sarebbe stato più corretto parlare di “continua riproposizione”, dove il termine riproposizione ha lo stesso significato assolutamente negativo di quando viene abbinato a categorie alimentari. Il cibo che si ripropone come una parafrasi del rigurgito.
Il secondo è che non credo esista il termine “kissingerianismo” (nemmeno nella forma “kissingerianesimo“), me lo sono inventato, è un neologismo che sarebbe stato assolutamente più corretto – sia dal punto di vista linguistico che per il significato – sostituire con “logica kissingeriana“. Ho usato, invece, “kissigerianismo” per assonanza con “grillismo”, per una mera questione estetica.  Ma sto divagando.
Il terzo, il più importante, è che non è vero che il grillismo non è un problema. Chi mi segue, sia su questo blog, che nei vari spazi web/social che mi sono trovata a percorrere nel corso degli ultimi anni,  sa perfettamente quali siano le mie posizioni riguardo a Grillo, ai grillini e al grillismo, da molto prima che il M5S approdasse in parlamento e dunque da molto prima che parlarne diventasse à la page. Riassumendo, trovo che il grillismo sia un’insalata confusa di qualunquismo, populismo becero, pressapochismo, sessismo e razzismo, territorialità che finisce per sconfinare nel provinciale e richiami senseless a un concetto di democrazia dal basso che sembra mutuato da un manuale di educazione civica delle scuole elementari scritto male.

Il grillismo è un problema, non ci piove, e ne abbiamo già discusso abbondantemente (a chi avesse ancora dubbi a riguardo consiglio “Un grillo qualunque”, di Giuliano Santoro) . Il punto su cui mi preme soffermarmi, però, è che l’antigrillismo acritico non è privo di rischi e che piuttosto che limitarci a grillini merda vs Ka$tamerda111!!! sarebbe importante puntare più in alto e provare a scardinare una dinamica perversa che attanaglia il dibattito politico da anni (e da cui, in un certo senso, lo stesso grillismo ha avuto origine). Sopra l’ho definita kissingerianismo o logica kissingeriana, perchè ricalca la linea politica di Henry Kissinger durante la guerra fredda (Pinochet vi dice niente, a parte la gaffe della deputata M5S Paglini?), riassumibile con l’antico adagio «Il nemico del mio nemico è mio amico».

Il dibattito politico italiano è stato infettato per vent’anni dal frame berlusconismo versus antiberlusconismo, che ha stravolto  le narrazioni e i discorsi di movimento e l’idea stessa di sinistra, ridotta ad un mix di giustizialismo e democristianismo. Il populismo anticasta del Movimento Cinque Stelle non è stato altro che una manifestazione estrema, un sottoprodotto tossico, di anni di discorsi egemonizzati dal leitmotiv berlusconismo/antiberlusconismo, dei Travaglio, dei Santoro, di Servizio Pubblico, di Fazio e Saviano, di SNOQ e per rendersene conto basta avere un minimo di memoria storica.
Questa premessa ci porta a tirare facilmente le conclusioni relative all’oggi: il rischio, in sostanza, è che il frame grillismo/antigrillismo, sia un refrain, un sostitutivo, di quello berlusconismo/antiberlusconismo e che l’antigrillismo diventi il minimo comune denominatore, il legante che unisce tutti insieme sotto lo stesso vessillo, quello del governo democristiano e del sostegno incondizionato alle istituzioni, a Napolitano ed in ultima analisi ad un Partito Democratico sempre meno democratico e sempre più baluardo del capitalismo selvaggio.  E del resto, non è un caso che gli stessi media mainstream, alimentino questo discorso con una verve bipartisan.  Non perchè «I giornalisti sono pagati dalla ka$ta, la macchina del fango contro di noi, blablabla», come – infantilmente, da loro costume – sostengono e lamentano loro, ma perchè hanno capito che battere sull’antigrillismo può essere un punto a favore per il sostegno ai provvedimenti sempre più lacrime e sangue del governo e perchè  parlare delle cazzate che i grillini fanno con una cadenza ormai quasi giornaliera è un buon modo per evitare di parlare dei conflitti reali.

Concludendo, sarebbe bene accorgerci che c’è una nuova narrazione tossica già in atto. E sarebbe bene trovare i modi per difenderci prima che sia troppo tardi e che faccia danni quanto la precedente.


#cosebelle unnamed incoming

La poesia, stavi dicendo della poesia». Julie sorride, toccando la guancia di Faye.
Faye si accende una sigaretta nel vento. «E’ solo che non mi è mai piaciuta. E’ un modo di girare intorno alle cose. Anche quando mi piace, non è altro che una maniera molto obliqua di dire l’ovvio, almeno così mi pare».
Julie sorride. Ha una fessura fra gli incisivi. «Olè», dice. «Ma considera che pochi, pochissimi di noi sono in grado di affrontare l’ovvio»

(Da La ragazza dai capelli strani, David Foster Wallace, minimumfax 2011)

Non sappiamo se noi saremo in grado di affrontare l’ovvio. Ci proveremo, perchè vogliamo puntare in alto e bandire il ribassismo, ma la verità è che abbiamo scelto di iniziare con questa citazione perchè ci piaceva, semplicemente per quello, e ve lo diciamo francamente, perchè vogliamo iniziare essendo onesti con voi. E diretti.

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Perciò iniziamo dicendovi che leggendoci non troverete buonismo e retorica. Non troverete ricette, consigli o diktat per la rivoluzione culturale che verrà, non troverete marchette più o meno velate a gente a cui nel panorama culturale indipendente italico va di moda fare marchette per motivi sconosciuti (o forse non così tanto sconosciuti, ma non approfondiamo), non troverete lunghi e complessi spiegoni del mondo (gli spiegoni lunghi e complessi secondo noi sono una roba da film di merda, amici, non sono una cosa figa!) or something like that.

E poi non troverete recensioni. Niente 7.7 o 9.9, o qualunque altro voto a caso vada di moda adesso su Pitchfork. Niente lindsayzoladz. Un po’ è perchè siamo troppo lunatici, e a parte la roba che fa inequivocabilmente schifo o quella inequivocabilmente bella, di solito tendiamo a cambiare parere su un disco/libro/film ad ogni tre ascolti/letture/visioni consecutive. Un po’ – soprattutto – perchè ci sono già un sacco di riviste, un sacco di ragazzi e ragazze, che stimiamo e leggiamo, che fanno belle recensioni, sia musicali che letterarie e cinematografiche (non ci mettiamo a citarli uno per uno qui, li troverete poi nel blogroll del sito che verrà).

Non faremo classifiche. Ci piacerebbe farle – se non altro per citare “Alta Fedeltà” – e invidiamo chi riesce a farle, ma ci viene difficile per la stessa lunaticità di cui sopra.

Ora, come in quella vecchia storia di pars destruens e pars costruens che ci avevano insegnato a filosofia al liceo, però, ci tocca dire quello che faremo, quello che troverete e in definitiva, quello che siamo o che quantomeno proveremo a essere e a fare, a parte affrontare l’ovvio, ma quello l’avevamo già detto. Proveremo ad essere un gruppo di amici che fa cose e vede gente (cit.) e condivide uno spazio sul web e lo usa per provare a riflettere sulla cultura pop in genere (ok, la citazione di DFW sopra non era tanto a caso, ci avete scoperti). Proveremo a parlare di musica, cinema, letteratura, arte, fotografia e fashion underground in un modo spietato, sarcastico e non troppo serio. Non perchè va di moda essere spietati, sarcastici e non troppo seri, semplicemente perchè vogliamo provare a divertirci scrivendo. Proveremo a limitare l’autoreferenzialità ma non vi assicuriamo niente. Troverete anche una sezione dedicata alla narrativa, nel senso che troverete dei racconti, troverete delle interviste a gente più o meno famosa, troverete un sacco di rubriche che cercano di esplorare l’affascinante campo della transmedialità, delle contaminazioni. Roba tipo il legame tra musica e letteratura and so on. Proveremo ad essere presenti non solo in forma virtuale, ma pure in una rozzissima forma cartacea (leggi “fotocopie b/n”) per unire la virtualità web del nuovomillennio alla tradizione delle fanzine old style. E per non farci trovare impreparati quando i social network imploderanno, lo ammettiamo.

Proveremo è la parola chiave. Non è detto che ci riusciremo, non ve lo assicuriamo, ma vi assicuriamo che tenteremo, anche se Yoda non sarebbe d’accordo. Per capire se ci riusciremo o meno, non avete che da aspettare il release ufficiale e seguirci. Stay tuned!

(P.S. Non abbiamo dimenticato di scrivere quale sarà il nome che abbiamo deciso di darci, per il momento non ve lo diciamo ma nei prossimi mesi troverete sparsi qua e là nel web e nelle vostre città degli indizi. Tenete gli occhi aperti)

Vuoi saperne di più? Vuoi collaborare con noi occasionalmente e vuoi scoprire come puoi fare o vuoi essere tra i redattori “fissi” che costituiranno l’ossatura di questo nuovo ed ambizioso progetto?

Hai una rivista, un progetto artistico/musicale/letterario, sei parte di un collettivo culturale e vuoi proporci qualche forma di partnership?

scrivici qui: cosebellesenzanome@outlook.com


Io, me e Gael

Gael non si chiamava davvero così, era lo pseudonimo che gli avevo affibbiato per parlare di lui in pubblico con le mie amiche senza rischiare complicazioni: era la copia esatta di Gael Garcia Bernal, quello di La Mala Educacion di Almodovar, e a pensarci adesso aveva anche qualcosa di Ian Somerhalder.  I capelli neri, o probabilmente gli occhi azzurrissimi, di quell’azzurro che a queste latitudini stenti a credere possibile, e comunque non per te, e scusatemi se indulgo in queste divagazioni descrittive da romanzetto d’amore di serie Zeta, anche i cyborg diventano sentimentali ogni tanto, lo dice pure Park Chan Wook.


(in realtà 500 days of summer non c’entra niente, anzi, sostengo la tesi opposta rispetto a quella del film, ma mi piaceva l’immagine)

Divagazioni descrittive a parte, comunque, non ricordo la prima volta che io e Gael ci siamo incontrati. So che ero adolescente, e quindi probabilmente l’ho dimenticata per un processo di rimozione post-traumatica. Ricordo, tuttavia, quando ci siamo reincontrati, dopo qualche anno: ero in treno, uno di quei regionali tristi, stavo leggendo qualcosa, credo fosse Storia della follia nell’età classica di Foucault, quando Gael si è seduto di fronte a me e abbiamo iniziato una conversazione imbarazzantissima e priva di senso compiuto sulla sua bronchite. E’ finita lì, di nuovo. Non ci siamo scambiati i numeri, non ci siamo dati ulteriori appuntamenti, non ci siamo aggiunti su Facebook. Niente di niente.

Per questo reincontrarlo meno di un mese dopo mentre aspettavo l’autobus è stata una di quelle coincidenze inverosimilmente cinematografiche. Mi ha offerto un caffè, mi ha dato un passaggio in macchina e durante il viaggio, di appena un quarto d’ora, ho scoperto che aveva scritto un libro di poesie autopubblicato, che disegnava, e che suonava il basso in un gruppo. Mi ha fatto leggere le poesie. Facevano veramente schifo, ma non ho avuto il coraggio di dirglielo, credo di essermi limitata a sorridere e a dirgli un ipocritissimo «Figata».  Comunque tra una poesia e l’altra ci siamo scambiati i numeri, mi ha chiamata due giorni dopo.

«Mi ricordo che mi avevi detto che c’è questa cena indiana, no? Pensavo di venire, bisogna prenotarsi?»
«No, mi basta avere la certezza che verrai. Poi chiamami se non sai la strada»

E’ venuto davvero, ha portato del vino e della roba da fumare. Avevo preparato un riso al curry e cocco che faceva veramente schifo, le mie amiche si sono innamorate di lui e hanno progettato di provarci con lui prima di scoprire che l’avevo invitato io.  Comunque non è successo niente, mi ha chiesto di tornare con lui ma sono rimasta a dormire da amici. Mi ha mandato un sms, una roba tipo  «serata bellissima, grazie di tutto : )» . Poi siamo usciti due volte, in cui ho fatto finta di interessarmi ai suoi discorsi banalmente adolescenziali, da quindicenne alternativo, con qualche risvolto grillino, e perlopiù abbiamo fumato erba. Poi l’ho scaricato, in un modo veramente pessimo, di cui tuttora mi pento: dovevamo andare insieme ad un concerto e dovevo prendere il biglietto anche per lui. Non gliel’ho preso, non gli ho risposto a telefono, non gli ho risposto ai messaggi. Quando si è presentato ai cancelli ero già dentro, il gruppo faceva il soundcheck e io fumavo erba e leggevo Infinite Jest seduta su una di quelle comodissime poltroncine di paglia. Ha chiesto alla mia amica di chiamarmi, le ho chiesto di dirgli che non c’ero, ed è finita così.

Scommetto che adesso l’ottanta per cento dei lettori, soprattutto quelli penedotati, penserà di me che sono una stronza e via discorrendo. Forse un po’ è vero, e a distanza di anni me ne sono un po’ pentita, ma come diamine avreste fatto a dire a qualcuno una cosa come «Sai, è che temo di avere standard troppo alti per le relazioni interpersonali, tu sei bellissimo, ma quando non sento di avere una connessione mentale con qualcuno non riesco a farci nemmeno sesso occasionale, e vorrei essere più superficiale, e ogni tanto faccio anche finta di esserlo ma non ci riesco. O forse, al contrario, ho fatto finta per così tanto tempo di essere una persona profonda che ho finito per crederlo davvero, non lo so. Non ho detto che tu non sia una persona profonda, magari ti potevi risparmiare le uscite grilline, però io voglio relazionarmi con persone con cui posso parlare anche di Kafka e di Dostoevskij e di David Foster Wallace e di Woody Allen e di Wes Anderson, e di città straniere, e di viaggi, e di posti belli, oltre che di erba. Ma anche qualcuno che mi parla di tubature in un modo poetico mi va bene. E’ che ho sempre troppe aspettative, forse è perchè ho letto troppi libri o visto troppi film, non lo so. C’è un pezzo di Trilogia della Città di K della Kristof, che dice una cosa tipo “Avrei voluto essere biondo e bello piuttosto che intelligente” e questa cosa vorrei farmela tatuare per quanto è vera per me. Comunque, alle mie amiche piacevi un sacco, magari gli dò il tuo numero, eh, ciao, stammi bene, grazie per la roba da bere e da fumare che mi hai offerto». Come gliel’avreste detta, voi, una cosa del genere? Io non ho avuto il coraggio, avrei voluto averlo.


I started something I couldn’t finish

The lanes were silent
There was nothing, no one, nothing around for miles
I doused our friendly venture
With a hard-faced
Three-word gesture

Le fini, quelle nette ed inesorabili, mi spaventano. Quando finisce un film il mio cervello va incontro ad una sorta di strano loop, rielaborando la storia in mille modi diversi fino a quando non ne è completamente saturo. Quando finisce un disco, lo rimetto dall’inizio, fino a quando non ho imparato a memoria le parole della metà dei pezzi e posso cominciare a cantarle a squarciagola. Forse è per questo che s’è rotto il braccio del giradischi. Quanto ai libri, leggo i finali quando sono a metà. E vi lascio immaginare quale sia il mio stato emotivo attuale, per aver dovuto affrontare nel giro di poche settimane la doppia fine di Breaking Bad e Dexter.

I started something
I forced you to a zone
And you were clearly
Never meant to go
Hair brushed and parted
Typical me, typical me
Typical me
I started something
…And now I’m not too sure

Con le relazioni umane non va meglio. Non riesco a dire basta.  Tendo a trascinarle fino all’estinzione, fino a quando non si esauriscono autonomamente, fino a quando anche la forza di inerzia non si spegne e la colla non tiene più insieme i pezzi. E poi c’è la cosa peggiore del mio brutto rapporto con le fini. Ancora peggio del non riuscire a smettere di mangiare e poi dover vomitare tutto, che ogni tanto ritorna, anche se meno di prima. Inizio cose e non riesco a finirle, e lo faccio perchè mi viene naturale, non per imitare gli Smiths a caso. Parto in quarta. Progetti, collaborazioni, romanzi, racconti, entusiasmo. Poi mi spengo, aspetto che si spenga anche l’inerzia, che tutto finisca smaterializzandosi in una sorta di buco nero psicologico gigantesco, e passo oltre.

I grabbed you by the guilded beams
Uh, that’s what tradition means
And I doused another venture
With a gesture
That was … absolutely vile

Con questo blog stava andando un po’ così. Poi è successo qualcosa di diverso e del tutto inaspettato. Prima una, poi due, poi tre, poi sempre più persone, mi hanno chiesto perchè non scrivessi più, mi hanno chiesto di aggiornare questo blog. Una parte di me si crogiolava bellamente nel senso di mancanza che ero riuscita a suscitare nel prossimo e si sarebbe trascinata pure quello fino all’estinzione. Un’altra parte si sentiva in colpa, o qualcosa del genere. Il risultato del compromesso tra le due parti è questo post iper-autoreferenziale in cui non vi prometto che da domani cambio musica e riprendo ad aggiornare con regolarità e a smetterla con l’autoreferenzialità tornando a tutto il resto, però vi prometto che almeno, ci provo.

I grabbed you by the guilded beams
Uh, that’s what tradition means
And now eighteen months’ hard labour
Seems … fair enough

(…)

(intanto, comunque, potete seguirmi su Finzioni)


L’istruzione negata

Segnalazione flash. Ho accetato con piacere l’invito degli amici di Lavoro Culturale a tenere una serie di riflessioni sulla formazione medica, e in particolare psichiatrica, in Italia.

Qui trovate il primo post, “Quando a fare scuola è Dr. House e non Michel Foucault“.
Qui, invece trovate un post di Silvia Jop che, oltre a commentare il commentario (scusate il gioco di parole) del mio primo post, spiega tutto il senso del percorso che faremo con “L’istruzione negata”.
Restate sintonizzati. Qui e su LC.